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THAILAND AND LAOS, 2004
Appunti di Viaggio

 

 

:: 11.5.04 ::

- Bangkok -

Bangkok e' la Milano del Sud Est Asiatico: una brutta citta' con alcuni angoli preziosi.
In questi due giorni la citta' mi e' passata accanto velocemente e senza stravolgere il basamento delle mie sensazioni. Parecchi deja vu asiatici e stereotipi ora eccessivamente stereotipati oppure sfruttati per i gruppi organizzati di turisti Europei in stopover verso Phuket.
Persino Patpong, un tempo luogo rinomato di prostituzione minorile verace, e' decaduto al rango di mercatino di bancarelle delle solite magliette globali e dei soliti orologi finti. E giusto accanto ai locali go-go piu' prestigiosi, ora specchietti per le allodole, ne sono nati da poco tanti altri che ne riprendono il marchio con nomi improbabili - King's Castle e' declinato in almeno cinque diversi nomi in cinque diversi locali. Insomma, la piu' disonorevole delle fasi di declino di un quartiere che un tempo doveva promettere davvero bene.

Della mia prima visita a Bangkok mi hanno appassionato tre cose.
Prima di tutto, il traffico. Il traffico di Bangkok e' la caricatura mondiale di un ingorgo eterno ed infinito. Macchine ferme, sempre ed ovunque. L'attesa di un piccolo movimento e' cosi' fuori da ogni logica che la dilatazione temporale diventa persino piacevole e divertente.
Secondo, la meravigliosa casa di Jim Thompson, un architetto Americano che all'inizio del secolo scorso, durante un viaggio in Thailandia, rimase colpito dalla bellezza delle sete locali, e comincio' a mostrarle nei luoghi del mondo in cui questa bellezza era piu' apprezzata - Milano, Parigi, New York - iniziando un solido commercio. La casa nella quale abitava e' ora un museo; la sua architettura, gli interni e l'arredamento sono un monumento alla bellezza delle cose della realta'. I particolari visibili o nascosti dei mobili, delle decorazioni delle ceramiche e dei materiali pregiati, provenienti dalla Thailandia, dall'Asia e dal mondo intero, rendono ragione del divino che si nasconde nelle minuzie, e sembrano mimare il senso di devozione ad esso degli artigiani e degli artisti durante la loro opera di creazione.

:: D 22:32
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:: 16.5.04 ::

- Chang Mai -

Terni e' una citta' orrenda, punto. Bergamo Alta, invece, e' molto bella. Ma ci sono alcuni luoghi al mondo che sono piu difficili da giudicare o da definire. Chang Mai, ad esempio. Una cittadina del nord della Thailandia apparentemente senz'anima, che doveva servirmi semplicemente come base di partenza per il resto del mio viaggio verso Nord, ma dove alla fine mi sono fermato ben tre notti.
Chang Mai e' una piccola citta con strade di media larghezza e case basse. Due cose definiscono questo posto. Primo, il traffico di auto e motorini e' esattamente della stessa caratura in ogni strada della citta', sia in centro che in periferia, e' perfettamente spalmato sul territorio, non ci sono vie senza traffico come non ci sono vie con piu traffico delle altre. Il traffico e' lo stesso ovunque, ed infatti non ci sono code.
Secondo, il tessuto delle attivita' commerciali della citta' e' quello tipico dell'economia di un paese che sta cambiando velocemente, e quindi di per se difficile da definire. Accanto a successioni di guesthouse e recenti bar per backpackers si trovano officine familiari minuscole e buie in cui si aggiustano o producono cose piccole e non definibili, generalmente di metallo, e giusto di fianco un negozio enorme dove vendono soltanto macchine fotocopiatrici nuove.

Ieri sera avevo una voglia irresistibile di farmi una pizza. Ho cercato e trovato un ristorante italiano, il proprietario, Roberto, e' di Parma. I ristoranti italiani all'estero sono sempre un rischio, ma questo mi ha affascinato e convinto da subito; appena varcata la soglia ho avuto l'impressione di entrare in una trattoria vicino a Scandiano, una di quelle di basso livello con le tovaglie di plastica a fiori dove, se le tovaglie sono opportunamente appiccicose, allora si corre il rischio di mangiare davvero bene. Roberto mi e' stato simpatico perche' mi ha tirato fuori del crudo di Parma che non era scritto sul menu, poi mi ha presentato la moglie, una thailandese che parla con perfetto accento parmigiano ed alla quale ogni tanto molla una pacca sul sedere per mandarla in cucina a finire la pasta delle lasagne.
Ad un certo punto e' entrato un tipo sulla cinquantina che sembrava uscito da un fotoromanzo di fine anni '70, la faccia rotonda, i baffi, ed una polo color carta da zucchero con l'ultimo bottone abbottonato. Il quale personaggio ha cominciato a parlarmi della sua vita, e, stimolato dalle mie domande, e' arrivato subito al dunque. La New Age. Appena ho sentito queste parole mi sono illuminato e subito un ghigno sarcastico e' comparso sul mio volto, ed ho pensato quando era stata l'ultima volta che avevo parlato con uno di questi. Devo ammettere che mi mancavano, mi mancava davvero avere davanti qualcuno che riesce a spiegarmi il motivo del suo essere al mondo e della sua felicita' riconducendo tutto a tre frasi della semplicita' esilarante o dalla totale sconnessione con l'essere dell'uomo e la realta'. Cio' che ieri mi ha fatto piu' sogghignare, mentre lo spronavo con le mie domande a rincarare la dose, e' stato qualcosa riguardo al futuro, ed al fatto che il futuro cambia, quindi il potere delle nostre azioni, oggi, cambia il futuro domani, ed il potere delle nostre azioni, domani, cambia il futuro dopodomani. Quando poi ho citato tre o quattro libri sul tema che ho in casa, allora ha avuto un'esplosione di gratitudine e felicita' nel constatare quanto fossimo sulla stessa lunghezza d'onda.

Sono uscito, ho camminato una buona mezz'ora lungo il fiume e sono arrivato all'unico locale che resta aperto fino alle due di notte, il Bubble, un posto con l'arredamento dark di una discoteca da domenica pomeriggio.
Ho conosciuto Jen, che mi ha scarrozzato in giro per Chang Mai deserta di notte sul suo motorino. Faceva caldo, e dal sedile di dietro allargavo le braccia ai lati come si fa, quando si e' contenti, nelle notti d'estate.

:: D 08:21
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:: 18.5.04 ::

- Pai -

Si parlava di guerra e pace, l'altra sera con Saskia. Si parlava di quale e' il limite entro il quale un popolo si deve in qualche modo occupare del destino di un altro popolo, ossia di quali sono i presupposti grazie a quali, in concreto, uno stato puo' interferire, seppure con un progetto positivo, nel destino di un altro stato o di un altro popolo, combattendo per lui o al suo fianco, e liberandolo dalle mani del nemico. Il che e' un argomento, come si dice, di scottante attualita'. Con Saskia ad un certo punto ci si e' incagliati durante la discussione. Allora ho tirato fuori la storia del Tibet.

Il popolo tibetano e' stato, nel corso degli anni recenti, cacciato dal Tibet dai Cinesi, il governo costretto all'esilio in India, e la struttura di supporto della filosofia buddista - monasteri e luoghi di culto - fisicamente distrutta. L'opera di rimozione della cultura e della tradizione buddista in Tibet da parte della Cina e' gia' ad un ottimo livello, anche se, prima di finire il lavoro, rimane ancora qualcosa da fare.
Il Tibet ha reagito sostanzialmente, nella storia, facendo cio' che il Buddha insegnava: ossia assolutamente niente. Facendo la pace.
Il buddista non ha nemici, e non considera nella sua cultura la reazione violenta ad un' azione violenta. Una posizione del genere davvero colpisce. Quando avevo incontrato I monaci tibetani che erano scappati dal Tibet camminando per quattro mesi sulle montagne ghiacciate verso l’India, ed erano arrivati alla meta perdendo per la strada la stragrande maggioranza del gruppo, essi non nutrivano nessun rancore verso I Cinesi che a questo li avevano costretti – appunto, perche’ loro non conoscono nemici. Una posizione del genere davvero colpisce ed affascina, soprattutto affascina chi proviene da una cultura nella quale storicamente, nel caso dell’attacco di un nemico, si e’ stati abituati ad impugnare un’arma – sia stato per difendere il potere, un’ area geografica, oppure la liberta’ di un popolo. Una posizione del genere, la rimozione dell’odio dall’intimita’ delle coscienze, e’ di preciso cio’ verso cui in tanti tendono per aiutare il mondo ad un cammino verso la pace. E pure, gia’ tutto questo esiste, gia' tutto questo e' realta'.
Si parlava, con Saskia, di quale e’ il limite entro il quale, pero’, puo’ sopravvivere al mondo un nucleo di persone sufficienti a mantenere in vita la cultura e la tradizione di un popolo, come quello Tibetano, in questo caso. Infatti, I Buddisti tibetani stanno scomparendo velocemente, e, come dicono loro stessi, "time is running fast".

Ci si e’ arenati giusto qui. Da un lato il fascino di una reale posizione non violenta, dall’ altro un punto interrogativo. Il pomeriggio del giorno dopo allora sono andato fuori citta', in un monastero buddista nella foresta. Un monaco teneva una lezione pubblica, ed io gli ho girato la domanda. La risposta e’ stata molto interessante, ha parlato degli insegnamenti del Buddha, della non-violenza, della tranquillita’ dell’anima delle persone.
Sennonche', ad un certo punto, tornando all’ esempio dei Tibetani che mi interessava, ha detto una frase che pareva semplice e scontata all’interno del discorso, ed alla quale non ha neppure associato un’intonazione particolare, ma dall’importanza radicale. Diceva che, in Tibet, per forza e senz’altro i Buddisti saranno annientati, la cultura dispersa, il culto e la tradizione distrutti. Questo succedera’, e’ gia’ successo nella loro storia, e niente sara’ fatto per resistere – niente che non sia non-violento, azione diplomatica, dialogo - perche’ “avere la tradizione e la religione distrutta e’ sempre meglio che combattere”.

Qui ci si era arenati, e questo probabilmente e’ il punto focale. Perche’ una posizione del genere funziona soltanto, paradossalmente, se non esiste il male, ossia se non esiste al mondo soltanto una persona a cui interessa dominarne un’ altra. La soluzione, in fondo, forse sta tutta qui, credere o no che il peccato originale esista, credere o no che il male, di cui facciamo intima esperienza ogni giorno, ci sia.

Da cio' consegue tutto: il proteggere il proprio popolo, la propria cultura, la propria tradizione, e pure quella degli altri, o lasciare che qualcuno, siano l’esercito cinese in Tibet o quattro piloti in America o tre persone in Spagna, se li prenda. Li annienti. Ne eradichi la storia.
Questi sono i termini dentro cui si muovono la guerra e la pace, e questi sono i tempi in cui si puo' decidere se, come per il Tibetani, sia sempre meglio avere la propria tradizione e religione – il proprio popolo – distrutti, piuttosto che combattere.

:: D 04:03
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:: 24.5.04 ::

- Vang Vieng, Laos -

Questa mattina, per la prima volta nella mia vita, ho stretto la mano a due veri comunisti. L'episodio e' avvenuto sul cassone posteriore di un camion, sulla Route 13, precisamente a sedici chilometri (circa) da Muang Phu Khun, in direzione di Kasi.

Mi mancava da morire il ferro nudo delle corriere, il rombo gutturale dei motori anziani, tutto quello che ci viaggia sopra - cose, animali, uomini - e soprattutto le stazioni, mi mancavano le stazioni. Sono partito da Luang Prabang dopo aver camminato tutta la mattina sotto il sole, lungo i vicoli con le case basse in stile coloniale francese, l'odore delle baguette misto a quello delle spezie, ed in mezzo alle famiglie che stendevano i panni lungo le rive del Mekong. Cominciava il pomeriggio e faceva ancora caldo, e la corriera ha cominciato subito a salire sulle montagne.

Il viaggio e'stato magnifico. La corriera si e'arrampicata lungo i crinali, aprendo lo sguardo, qualche volta in basso a sinistra e qualche volta in basso a destra, a valli verdi, desolate ed incontaminate, di cui non si riusciva mai a scorgere la fine. Lungo la strada, ad una distanza di una quindicina di chilometri l'uno dall'altro, tanti villaggi, normalmente allungati ai lati della strada principale, e nei quali la strada principale aveva la funzione di centro della comunita'. Ieri era domenica, ed infatti pareva che nei villaggi si facesse cio' che si puo' fare, se si vuole, la domenica - cioe' niente. Soprattutto, la gente era a riposo nelle capanne, si intravedeva nell'oscurita', oppure, in alternativa, si lavava. In ogni villaggio c'era un angolo con una fontana dove a decine, bambini, uomini e donne, si lavavano con canestri d'acqua fredda, i bambini nudi e le donne, pudiche, completamente vestite.
Soprattutto, ogni villaggio trabordava di bambini in festa, a giocare tra di loro, con i cani o con maiali grigi, oppure in braccio alle loro madri, normalmente appoggiate allo stipite della porta della capanna.
Nei paesi non c'era niente. Non c'era ferro, non c'era vetro, non c'erano altri colori che non fossero il verde degli alberi o il marrone delle capanne. Il Laos e' un paese il cui sviluppo e' rimasto indietro di trenta anni rispetto, pure, ad un paese come la Thailandia. La principale forma di abitazione sulle montagne e', appunto, una capanna costruita su una palafitta a un metro e mezzo da terra, dalla struttura interna solida ma dai muri evidentemente fragili, costruiti con sottili listelli di legno rettangolare intrecciati, esattamente come un cestino.

Era tutto troppo strano, era tutto troppo diverso da tutto cio'che ho visto prima, eppure in paesi gia' cosi' poveri. Dopo quattro ore di viaggio, piu' o meno a meta' strada, arriviamo al punto piu' in alto sulla montagna, dove sta un paese il cui luogo centrale e'un crocicchio - da una parte la strada verso sud, dall'altra quella verso il Vietnam. C'e'molta vita, la stessa di tutti i villaggi, eppure qui di piu', ci sono piu'persone e c'e' pure qualcosa che somiglia ad un mercato. C'e' un'atmosfera unica. Quando la corriera si ferma tutto il paese si sposta ancora in mezzo alla strada. La corriera riparte quasi subito e comincia a scendere, io corro a cercare la mia guida e cerco di capire il nome del paese, ma non e' segnato neanche sulla mappa. La corriera continua a scendere verso valle, tutto attorno fa piu' fresco e il sole sta tramontando, il paese e' ormai lontano.
Corro verso l'autista e gli faccio capire che voglio scendere, questo non capisce, poi alla fine pero' ferma la corriera, e io scendo. In questo momento sono precisamente in mezzo ad una strada nelle montagne del Laos centrale. Comincio a camminare verso il paese, mi volto e la corriera e' ancora ferma in mezzo alla strada, pare che mi aspetti, mi guardano, allora gli faccio un generoso ciao con la mano, quindi, dopo un po', riparte.
Mi rendo conto che dovro' camminare per almeno cinque chilometri, e mi travolge il mio terrore numero uno: i cani randagi. Decido di fermarmi e di mettermi i pantaloni piu resistenti che ho, poi ricomincio. Cammino e lungo la strada incontro decine di persone, bambini che giocano, vecchie donne dalla pelle raggrinzita ferme sul bordo, donne con un bastone sulle spalle con attaccate ceste stracolme, e poi maiali, cani e galline. Tutti quelli cui passo di fianco mi sorridono, supero alcune case e poi ancora soltanto la strada, ora fa fresco e ho il tramonto giusto davanti a me. Dopo un' ora di cammino, finalmente, faccio la mia entrata discreta nel villaggio, con il mio zaino arancione, gli occhiali da Malibu Beach ed un cappello da sfigato, ed allora tutti, ai lati della strada, a quel punto smettono di fare quello che stanno facendo per ammirare, curiosi, la mia occidentalita' e la mia novita' - un gran bel colpo, comunque, per il mio narcisismo.
Confido nel fatto un posto dove dormire non lo si nega a nessuno, e comincio a cercare attorno nel villaggio, nessuno parla inglese e ormai si e' fatto buio, ma alla fine trovo una signora, anzi tre donne - madre, figlia, e nipote - che mi offrono una stanza a casa loro di fianco a quella dove dormono loro.

Me ne vado un po' in giro, poi mi siedo davanti ad una baracca lungo la strada, qui vendono birra e ne approfitto, e cerco di capire in quale paese sono finito. E scopro che, pur non essendo nella guida, il paese e' citato quando si parla della guerriglia Hmong, che a quanto pare ha base giusto lungo la strada che stavo percorrendo a piedi due ore prima.
Il popolo Hmong e', in parte, quello che ho incontrato lungo la strada, ma piu' in particolare e' quello con cui si erano alleati gli Stati Uniti durante la guerra di Indocina - la CIA li allenava proprio qui vicino - e che, dopo la guerra e dopo la presa di potere in Laos da parte dei comunisti nel 1975, ha continuato a fare opposizione ai comunisti, con atti di guerriglia appunto, scorrerie varie, attentati qui e la', ed aggressioni armate agli autobus locali giusto su questa strada con relativi stranieri morti ammazzati, tutti con lo scopo di contrastare o danneggiare indirettamente il governo comunista. Amici miei, in fondo.
Comunque, pare che negli ultimi tempi la zona sia diventata piu' tranquilla, anche se rimane una delle ultime zone di resistenza. In ogni modo decido di sospendere per stasera la tradizionale passeggiata al buio sotto le stelle, e me ne vado nella mia stanza.
La mattina mi sveglio di buon'ora, e me ne resto seduto davanti al crocicchio a guardare il paese che si sveglia, gli uomini che caricano cose, ed i primi commerci di frutta e verdura lungo la strada principale. Devo cominciare a scendere verso sud, ho ancora quattro ore di viaggio fino a Vang Vieng. Trovo un camion che mi da' un passaggio nel cassone posteriore, in mezzo ad altre cinque persone. Uno dopo l'altro loro scendono ed io rimango da solo nel cassone, dove dovro' restare per un buon duecento chilometri.
Mi appoggio con la schiena ai sacchi di verdura. Sono estremamente di buon umore. Ho una visuale eccellente della strada e delle montagne attorno, il cielo e' blu, il camion scende lentamente lungo la valle e l' aria fresca mi rimbalza sulla fronte. Rifletto sulla situazione politica e penso agli attacchi dei banditi, in fondo usavano avvenire proprio qui, non faccio a tempo a finire il pensiero che passiamo di fronte ad una corriera abbandonata da un po' di fianco alla strada, con il lato sinistro crivellato di proiettili. Tre curve dopo, due ragazzini con il mitra spianato in mezzo alla strada fermano il camion. L' autista fa segno dietro, verso il cassone dove sono coricato io, e questi vengono verso di me. Mi vedo costretto ad alzarmi dai sacchi dove stavo coricato, per capire che succede. I due ragazzi alzano il mitra, poi mi fanno un sorriso, appoggiano l'arma sul mio zaino e salgono di fianco a me, non hanno piu' di quindici anni, ci conosciamo e gli stringo la mano.

Deduco facciano parte dei battaglioni spediti qui - solo dopo la recente asfaltatura della strada - per contrastare la guerriglia Hmong. Lungo i successivi quaranta chilometri ci sono altri quattro posti di blocco, all'ultimo saluto i ragazzi che scendono con i loro mitra. Il viaggio procede fino a Kasi, poi devo scendere dal camion e aspetto per una mezz'ora che ne arrivi un altro. Il primo che arriva e' carico di gente, vecchi, donne, bambini.
Ad un certo punto, dopo tre curve, ci fermiamo, ci sono tre persone che devono salire. Una ha in mano due sacchi bianchi, un' altra dei fasci di foglie molto larghe, la terza una cesta con dentro due galline, una bianca ed una nera.

:: D 07:31
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:: 28.5.04 ::

- Vientiane, Laos -

Quattro piccole cose che ho imparato durante questo viaggio.

1) Durante i viaggi in corriera sulle strade tortuose sui monti Laotiani, premurarsi di non sedere di fianco al finestrino, nel caso in cui le persone sedute nelle due file di fronte mostrino sin dalla partenza evidenti segni di sofferenza da nausea, e allo stesso tempo non sia possibile chiudere il finestrino di fianco.

2) E' opportuno portare con se' un iPod di riserva, di cui servirsi nel momento in cui il primo, quello in cui si e' appena terminato di caricare il cinquecentosessantesimo CD da ascoltare durante i lunghi viaggi, cessi improvvisamente ed inesplicabilmente di funzionare il secondo giorno di permanenza.

3) Un massaggio al giorno toglie il medico di torno.

4) La quarta non si dice.

:: D 11:50
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